Archeologia e suggestioni a Margherita di Savoia
Archeologia e suggestioni a Margherita di Savoia
Territorio

Storia e suggestioni, cosa raccontano davvero le scoperte archeologiche a Margherita di Savoia?

Alcune riflessioni con lo storico Victor Rivera Magos

Il recente ritrovamento di alcuni reperti archeologici sulla costa di Margherita di Savoia ha ovviamente destato la corsa all'attribuzione storica di questi antichi resti. A giugno scorso furono i militari della Guardia Costiera di Margherita di Savoia a ritrovare diversi frammenti di antiche anfore, precisamente sul litorale Nord zona Quarto - Orno: si trattava di diverse decine di pezzi di anfore, dalle varie forme (anse, colli, pancia, piede) di sicuro interesse storico/archeologico.

L'origine di tali reperti archeologici? Per ora non è nota. Dopo il ritrovamento i resti sono stati consegnati alla Sovrintendenza dei Beni archeologici di Foggia per le successive fasi di catalogazione, studio e ricerca.

Nel frattempo abbiamo provato a capirne di più interpellando Victor Rivera Magos, barlettano, dottore di ricerca in Storia medievale.

Qual è la versione più accreditabile sull'origine di questa scoperta?
«Potrei fare molte considerazioni puramente ipotetiche, ma non lo farò, perché non ne ho riscontro diretto ma, come te, l'ho letta su una testata online. Piuttosto, quello che posso dire è che non vi può essere alcuna versione accreditabile sull'origine di quella scoperta in assenza di una indagine archeologica e documentaria sul sito del ritrovamento. Di questo si dovrà occupare la Soprintendenza archeologica, nella quale lavorano professionisti bravissimi. Ma anche le Università, oggi, possono dare una mano. A Bari sono state recentemente istituite delle borse di dottorato di ricerca in archeologia dei paesaggi costieri e subacquei, sotto la guida di Giuliano Volpe che è stato un pioniere del settore. Ecco, forse è il caso che cittadini e appassionati (anche i giornalisti), oggi, anziché lanciarsi in fantasmagoriche e anacronistiche analisi acchiappaclick (che rispondono a bisogni economici e non all'amore per la verità), chiedano a gran voce che la conoscenza e la valorizzazione di siti come quello passino attraverso ricerche serie, con strumenti adeguati e all'avanguardia, affidate a professionisti riconosciuti e a giovani adeguatamente formati. E che le amministrazioni pubbliche e l'imprenditoria locale sostengano queste indagini.

Attraverso la valorizzazione di siti come quello transitano economie e possibilità di lavoro nel settore della cultura, della comunicazione e del turismo, ma è evidente che ciò avverrebbe solo in seguito alla programmazione di un percorso pluriennale di investimenti e la collaborazione di privati, Enti dello Stato, Comuni e Università. La domanda è: cittadini e politica sono ancora pronti a sostenere questi investimenti o sono troppo impegnati a guardare il proprio ombelico e magari a continuare a pensare che sia sufficiente nominare Federico II e i Templari in ogni occasione per bypassare il problema? Suvvia, siamo nel 2023 e bisogna pretendere uno scarto, altrimenti il destino di questi luoghi sarà segnato negativamente da speculazione e abbandono».

Circolano leggende sulla presenza di una antica cittadella in località Torre Pietra, come estensione del vecchio porto, tanto che alcuni fanno riferimento a una vera e propria "città sommersa". Quanto ci può essere di vero a livello storico?
«Chiariamo una cosa: il sistema di porti della Capitanata e, in generale, della Puglia adriatica, nel Medioevo, non era quello che vediamo oggi, con porti presenti unicamente nelle grandi città costiere. Certo, i "grandi porti" di città come Manfredonia, Barletta, Trani, fungevano già al tempo da collettori fiscali e centri di distribuzione di derrate, merci e uomini lungo le rotte mediterranee. Ma va ricordato che il sistema di caricamento di queste derrate era affidato spesso al cabotaggio marittimo, e molti erano gli scali e gli attracchi esistenti lungo tutta la costa; peraltro, talvolta si trattava di attracchi privati o abusivi. Federico II, se proprio vogliamo dirla tutta, provò a limitare questa situazione, immaginando un sistema di porti piccoli e grandi completamente gestiti dal demanio regio (pensiamo a Rivoli), ma il progetto in parte fallì, sebbene ancora nel Quattrocento esistevano scali che movimentavano importanti quantità di merci per la corona e per i grandi mercanti regnicoli e stranieri ai quali non corrispondevano veri e propri centri abitati o città: si pensi allo scalo di Fortore, dove era attiva anche una dogana. Quello che è possibile dire è che non è improbabile che nella zona di Torre Pietra, Torre delle Saline ecc. esistessero uno o più attracchi che facevano capo alla corona, ai vescovi di Canne, agli ordini religiosi. Essi vanno studiati adeguatamente, e in parte abbiamo iniziato a farlo per i registri doganali con un progetto internazionale da me coordinato per l'Università di Foggia.

Va ricordato, inoltre, che quella è una zona dove la linea della costa medievale è cambiata radicalmente rispetto all'età tardo antica e ancora nel secolo XIV il progressivo impaludamento della zona fu una delle cause che favorirono lo spopolamento della città di Salpi, modificando in parte anche le modalità di gestione delle saline regie. Si tratta di cose ampiamente studiate sia da Saverio Russo, che per l'età moderna ha lavorato proprio sulle saline "di Barletta" (oggi Margherita di Savoia), sia dal team di archeologi guidato da Roberto Goffredo e Darian Totten che negli anni passati ha scavato a Salapia/Salpi. Non esistono città sommerse. Semmai scali e strutture d'attracco progressivamente disfunzionalizzate, così come torri e chiese nel tempo abbandonate.

Non è un mistero che in quella zona ci fossero alcune chiese dipendenti dagli ordini religioso-militari; si pensi proprio a Santa Maria de Salinis, data ai templari nel 1158 dal vescovo di Canne Bonifacio. Si trattava di insediamenti ecclesiastici intorno ai quali naturalmente si formava nel tempo una piccola comunità di abitanti. Nel caso di Santa Maria una masseria è attestata nel 1373. Per saperlo, basta leggere gli studi di Vito Ricci. D'altronde, quando pensiamo alla Capitanata del tempo è necessario immaginare un territorio più densamente popolato di quanto sia oggi, con piccoli insediamenti sparsi di poche unità abitative utili a organizzare il lavoro e il controllo sul territorio, ma spesso amministrativamente dipendenti da centri urbani più grandi e dalle istituzioni in essi ospitate. Per sfatare miti e leggende è sufficiente leggere le fonti o affidarsi a chi sa farlo. Come suggerimento, per comprendere quale mobilità esistesse sul territorio, inviterei a leggere il Chronicon di Domenico da Gravina, peraltro appena ripubblicato in una importante edizione nazionale per la cura di Fulvio Delle Donne e la collaborazione, tra gli altri, mia, di Francesco Violante e Marino Zabbia. Il lettore ne resterebbe sorpreso».

Anche parlando di storia continua a imperversare il fenomeno delle "fake news", come si potrebbe arginare la diffusione di teorie poco verosimili se non del tutto errate?
«Le fake news sono un male del nostro tempo. Esse sono diventate purtroppo un vero e proprio strumento comunicativo: pensate a quanto servano alla politica. Il problema è che esse annebbiano la nostra vista e rendono ogni cosa come parte di un blob in cui tutti hanno diritto di parola e l'antico e sano principio dell'autorevolezza della fonte o dell'auctoritas che la legge si va a fare benedire. La comunicazione di ambito storico non ne è immune, purtroppo. Tuttavia, la produzione di fake in ambito storiografico dipende da molteplici fattori. Su tutti, localmente (non solo qui, ma ovunque), dalla resistenza di molti ad abbandonare racconti incrostatisi nel tempo e trasmessi di bocca in bocca, magari da padri e familiari o dall'erudito conosciuto da tutti, e mai verificati; alla resistenza all'aggiornamento da parte delle agenzie educative e di formazione di base (sì, parlo proprio della scuola); e dal fatto che le agenzie di comunicazione che supportano l'economia locale preferiscono fare le ricerche da sole, magari affidandosi a Internet o al conoscente, piuttosto che affidarsi (e pagare) professionisti adeguatamente formati.

Il problema è che così non i va da nessuna parte, si rinuncia a crescere e si consente di credere che la conoscenza storica sia immobile e non in continua ridiscussione e revisione. Per capire di cosa sto parlando, mi perdonerete se farò un esempio forse un po' lunghetto, ma credo utile.

A Barletta una delle tradizioni più dure a morire è quella legata all'arrivo in città di Raoul de Granville, patriarca di Gerusalemme, in fuga dalla Terra Santa dopo la caduta di San Giovanni d'Acri nel 1291. Questi avrebbe scelto Barletta (tra molte città europee anche più importanti) perché qui vi erano le sedi degli ordini militari. Ma esse si trovavano anche in altre località del Mediterraneo e dell'Europa del tempo, e allora una delle domande che ci si dovrebbe fare è: perché Barletta? Il racconto, che è frutto di una supposizione del tutto ipotetica fondata su una serie di indizi circostanziali, è da generazioni accettato come vero e guai a metterlo in discussione. Oggi, anche grazie ai miei studi e a quelli di quanti negli anni passati si sono cimentati nell'indagine sulla storia della città, possiamo affermare che si tratta di una fake news. A Barletta non arrivò alcun patriarca dalla Terra Santa, poiché Niccolò de Hanapes, titolare della cattedra di Gerusalemme, nel 1291 non riuscì ad abbandonare Acri, ma morì annegato nel tentativo di imbarcarsi durante la fuga. Quello che arriva a Barletta è invece un francese, il domenicano Raoul de Granville, il quale fu consacrato a Rouen, in Francia, nel 1294 dopo quasi tre anni di vacanza della sede patriarcale, e giunse a Barletta forse poco dopo in seguito alle pressioni operate sul capitolo gerosolimitano da Carlo II d'Angiò e da Giovanni Pipino, potentissimo consigliere del re, barlettano. Il suo arrivo fu funzionale alla politica degli Angiò su questa zona dell'Adriatico e ai loro interessi nei confronti dell'Oriente latino. Non è un caso che la permanenza del patriarcato in città fu temporanea, e si dissolse con il mutamento di interessi della corona.

Questa notizia toglie qualcosa all'importanza dell'evento? Certamente no. Ma è proprio qui il punto: alle tradizioni, quando non alle nostre convinzioni, siamo tutti affezionati, ed è dura saperci rinunciare, perché per farlo spesso è necessario mettere in discussione percorsi personali, storie familiari e conoscenze consolidate. Dunque, per rispondere alla domanda, in ambito storico non è possibile arginare la diffusione di fake news o ridiscutere tradizioni e convinzioni, se non con il continuo aggiornamento da parte dei professionisti del settore, con la disponibilità dei cittadini di starli a sentire e con la capacità, come si fa quando si è malati e ci si affida a un medico, di riconoscere che certe cose possono raccontarcele solo storici, archeologi, storici dell'arte ecc. ecc., perché essi hanno gli strumenti per farlo e per farci guardare il territorio con occhi nuovi. Diversamente, come diceva il mio amico e maestro Raffaele Licinio, c'è il sonno della ragione e, con esso, l'incubo».
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